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The way I see it, dogs had this big meeting, oh, maybe 20,000 years ago. A huge meeting--an international convention with delegates from everywhere. And that's when they decided that humans were the up-and-coming species and dogs were going to throw their lot in with them. The decision was obviously not unanimous. The wolves and dingoes walked out in protest.
Cats had an even more negative reaction. When they heard the news, they called their own meeting--in Paris, of course--to denounce canine subservience to the human hyperpower. (Their manifesto--La Condition Feline--can still be found in provincial bookstores.)
Cats, it must be said, have not done badly. Using guile and seduction, they managed to get humans to feed them, thus preserving their superciliousness without going hungry. A neat trick. Dogs, being guileless, signed and delivered. It was the beginning of a beautiful friendship.
I must admit that I've been slow to warm to dogs. I grew up in a non-pet-friendly home. Dogs do not figure prominently in Jewish-immigrant households. My father was not very high on pets. He wasn't hostile. He just saw them as superfluous, an encumbrance. When the Cossacks are chasing you around Europe, you need to travel light. (This, by the way, is why Europe produced far more Jewish violinists than pianists. Try packing a piano.)
My parents did allow a hint of zoological indulgence. I had a pet turtle. My brother had a parakeet. Both came to unfortunate ends. My turtle fell behind a radiator and was not discovered until too late. And the parakeet, God bless him, flew out a window once, never to be seen again. After such displays of stewardship, we dared not ask for a dog.
My introduction to the wonder of dogs came from my wife Robyn. She's Australian. And Australia, as lovingly recounted in Bill Bryson's In a Sunburned Country, has the craziest, wildest, deadliest, meanest animals on the planet. In a place where every spider and squid can take you down faster than a sucker-punched boxer, you cherish niceness in the animal kingdom. And they don't come nicer than dogs.
Robyn started us off slowly. She got us a border collie, Hugo, when our son was about 6. She knew that would appeal to me because the border collie is the smartest species on the planet. Hugo could 1) play outfield in our backyard baseball games, 2) do flawless front-door sentry duty, and 3) play psychic weatherman, announcing with a wail every coming thunderstorm.
When our son Daniel turned 10, he wanted a dog of his own. I was against it, using arguments borrowed from seminars on nuclear nonproliferation. It was hopeless. One giant "Please, Dad," and I caved completely. Robyn went out to Winchester, Va., found a litter of black Labs and brought home Chester.
Chester is what psychiatrists mean when they talk about unconditional love. Unbridled is more like it. Come into our house, and he was so happy to see you, he would knock you over. (Deliverymen learned to leave things at the front door.)
In some respects--Ph.D. potential, for example--I don't make any great claims for Chester. When I would arrive home, I fully expected to find Hugo reading the newspaper. Not Chester. Chester would try to make his way through a narrow sliding door, find himself stuck halfway and then look at me with total and quite genuine puzzlement. I don't think he ever got to understand that the rear part of him was actually attached to the front.
But it was Chester, who dispensed affection as unreflectively as he breathed, who got me thinking about this long-ago pact between humans and dogs. Cat lovers and the pet averse will just roll their eyes at such dogophilia. I can't help it. Chester was always at your foot or your hand, waiting to be petted and stroked, played with and talked to. His beautiful blocky head, his wonderful overgrown puppy's body, his baritone bark filled every corner of house and heart.
Then last month, at the tender age of 8, he died quite suddenly. The long, slobbering, slothful decline we had been looking forward to was not to be. When told the news, a young friend who was a regular victim of Chester's lunging love-bombs said mournfully, "He was the sweetest creature I ever saw. He's the only dog I ever saw kiss a cat."
Some will protest that in a world with so much human suffering, it is something between eccentric and obscene to mourn a dog. I think not. After all, it is perfectly normal, indeed, deeply human to be moved when nature presents us with a vision of great beauty. Should we not be moved when it produces a vision--a creature--of the purest sweetness?
Translation - Italian I CANI E GLI UOMINI
Chester era la mia finestra sul misterioso legame tra la razza canina e gli umani.
Ecco come la vedo io: i cani si riunirono in gran consiglio, oh, forse ventimila anni fa. Un’enorme adunanza – un convegno internazionale con delegati provenienti da ogni dove. Fu allora che decisero che gli umani fossero la specie emergente e che loro, i cani, vi avrebbero stretto alleanza. La decisione ovviamente non fu unanime. In segno di protesta, i lupi e i dingo abbandonarono l’incontro.
I gatti ebbero una reazione ancor più negativa. Quando appresero la notizia, indissero una loro assemblea – a Parigi naturalmente – per denunciare la sottomissione della razza canina allo strapotere umano. (Il loro Manifesto – La Condizione Felina – è tuttora reperibile nelle librerie di provincia).
I gatti, va loro riconosciuto, ci hanno saputo fare. Con furbizia e seduzione riuscirono ad indurre gli umani a sfamarli, preservando così la loro alterigia senza patire la fame. Una bella mossa, non c’è che dire. I cani, incapaci di queste astuzie, pattuirono l’accordo e vi prestarono fede. Fu l’inizio di una bellissima amicizia.
Devo ammettere che il mio amore per i cani non ha radici profonde. Sono cresciuto in una casa priva di simpatia per gli animali domestici. I cani non occupano un posto rilevante nelle famiglie d’immigranti ebrei. Mio padre non era quel che si dice un amante degli animali da compagnia, non che fosse loro ostile, li riteneva semplicemente superflui, un ingombro. Quando i cosacchi ti danno la caccia in giro per l’Europa, è fondamentale viaggiare leggeri. (Questo, tra parentesi, è il motivo per cui l’Europa annovera molti più violinisti ebrei che pianisti. Provate a far entrare un pianoforte in una valigia).
I miei genitori mostrarono un po' d’indulgenza: a me fu concesso di tenere una tartaruga e a mio fratello un parrocchetto, ma entrambi andarono incontro a una fine spiacevole. La mia tartaruga cadde dietro un calorifero e non fu rinvenuta che troppo tardi; e il parrocchetto, Dio lo benedica, una volta volò fuori da una finestra e non lo rivedemmo più. Dopo un tale sfoggio della nostra affidabilità, non osammo chiedere un cane.
Fu mia moglie Robyn, di origine australiana, ad aprirmi le porte della meraviglia canina. L’Australia, come amorevolmente descritta nell’opera di Bill Bryson “In a Sunburned Country”, possiede gli animali più stravaganti, più selvaggi, più mortali e più insignificanti del pianeta. In un posto dove ogni ragno e calamaro possono ucciderti più velocemente di un pugile suonato, si apprezza maggiormente la benevolenza del regno animale, quantunque essa non superi quella dei cani.
Robyn cominciò portando a casa un pastore scozzese, Hugo, quando nostro figlio aveva circa sei anni. Era certa che mi sarebbe piaciuto perché il pastore scozzese è la specie più intelligente del pianeta. Hugo sapeva: 1) giocare da esterno nelle nostre partite di baseball in giardino, 2) fare un’impeccabile guardia alla porta d’ingresso, 3) giocare al meteorologo medianico, annunciando con un gemito l’approssimarsi di ogni temporale.
Quando nostro figlio David compì dieci anni, volle un cane tutto suo. Espressi il mio dissenso usando argomenti presi in prestito dai seminari sulla non proliferazione nucleare. Fu inutile. Bastò un gigantesco “Per favore, papà” a farmi capitolare. Robyn si recò a Winchester, in Virginia, trovò una cucciolata di Labrador neri e portò a casa Chester.
Chester era l’incarnazione di quello che gli psichiatri chiamano amore incondizionato, anzi dell’amore sfrenato. Chiunque si presentasse a casa nostra veniva immancabilmente steso a terra dagli slanci d’affetto di Chester, che esprimeva in questo modo la gioia di vederti. (I fattorini impararono a lasciare le consegne alla porta d’ingresso.)
Sotto alcuni punti di vista, come ad esempio la capacità intellettiva, non avanzo alcuna grande pretesa per Chester.
Quando arrivavo a casa, potevo aspettarmi di trovare Hugo a leggere il giornale, non Chester. Chester cercava di farsi strada attraverso l’angusto varco di una porta scorrevole, per ritrovarsi incastrato nel mezzo a guardarmi con totale e del tutto autentico sbigottimento. Non credo che sia mai arrivato a capire che la parte anteriore e posteriore del suo corpo costituissero un tutt'uno.
E' stato Chester, che elargiva affetto in maniera tanto naturale quanto gli fosse naturale respirare, a farmi pensare a questo patto di lunga data stipulato fra la razza umana e i cani. Gli amanti dei gatti e coloro che non amano gli animali da compagnia, alzeranno gli occhi al cielo leggendo di una tale predilezione per i cani. Non so che farci. Chester era sempre ai tuoi piedi o in prossimità della tua mano, in attesa che lo si coccolasse, lo si accarezzasse, ci si giocasse insieme, gli si parlasse. La sua bellissima testa vuota, il suo meraviglioso corpo di cucciolo cresciuto troppo in fretta, il suo latrato baritonale riempivano ogni angolo della casa e del cuore.
Il mese scorso, alla tenera età di otto anni, Chester è morto del tutto improvvisamente. Il lungo, languido e indolente declino che ci aspettavamo non ci sarebbe stato. Appresa la notizia, un giovane amico, vittima consueta delle bombe d’amore scagliate da Chester, ha tristemente commentato: “Era la creatura più dolce che avessi mai visto. L’unico cane che io abbia mai visto baciare un gatto.”
Alcuni obietteranno che in un mondo con così tanta sofferenza umana, piangere un cane sia qualcosa tra l’eccentrico e lo scandaloso. Io non lo credo. Dopotutto è perfettamente normale, anzi profondamente umano, commuoversi quando la natura ci regala uno spettacolo di grande bellezza. Perché non commuoversi allora di fronte a una creatura di così pura dolcezza?
German to Italian: GERMAN TRANSLATION
Source text - German
LEGENDEN
Alis letzter Sieg
Von Hüetlin, Thomas
Für ihn standen Menschen aller Kulturen mitten in der Nacht auf, bis heute ist Muhammad Ali ein Liebling der Menschheit. Er boxte wie kein anderer, er redete wie Osama Bin Laden, und jetzt kämpft der Parkinson-Kranke gegen Mächte, die stärker sind als er. Von Thomas Hüetlin
Der Rodeo Drive in Beverly Hills, Los Angeles, ist eine der teuersten Einkaufsstraßen der Welt - so teuer, dass sogar die Bürgersteige mit Marmor gepflastert sind.
Bei 28 Grad im Schatten stapfen die Leute an den Schaufenstern von Tiffany und Bulgari vorbei, getrennt nur durch die Farbe der Kreditkarten - in die Kaste jener, die wirklich shoppen, und jener, die ihnen dabei zuschauen dürfen.
Es ist kurz nach halb vier an einem Donnerstagnachmittag, als diese Apartheid des Turbokapitalismus zusammenbricht.
Schuld daran hat ein Mann, der sich für zwei Tage im "Beverly Wilshire"-Hotel einquartiert hat und jetzt einen Spaziergang unternimmt. Der Mann heißt Muhammad Ali, er trägt eine schwarze Hose, ein schwarzes Hemd, und sein Gang wirkt, als hätte jemand die Gummisohlen seiner schwarzen Schuhe in Klebstoff getaucht.
Aber 20 Meter genügen. 20 Meter von Muhammad Ali reichen, um diese Show des Protzes auf den marmornen Bürgersteigen zu unterbrechen und ein Lächeln der Demut in die Gesichter der Menschen hüpfen zu lassen. Sie bleiben stehen, wollen ein Foto, ein Autogramm. Und sie wollen ihn umarmen.
Ein Mann namens Takakasi, Sushi-Chef aus Tokio, drückt sich an Alis Brust, sagt: "Für mich bist du der Champion - immer noch." Ein Mädchen mit einer Chanel-Tasche gibt Ali einen Kuss, sagt: "Ali, I love you." Ein Typ aus Ägypten greift Alis Hand, flüstert: "Allah sei mit dir." Und dann ist da noch Peter aus Detroit, Chef einer Putzkolonne. Peter trägt blaue Sandalen, blaue Shorts und hat die Figur eines Big Mac. Ali albert mit ihm herum. Hält, als Peters Frau auf den Auslöser drücken will, Peters weiße Faust auf seine braune Nase. "Nein", ruft Peter, "nein, Champ, tu das nicht. Ich will kein Foto, auf dem ich dich schlage, nicht einmal im Spaß. Ich will dich nur drücken."
Die Menge wächst weiter, die ersten Autos stoppen. Und Ali, der Mann, dem die Parkinson-Krankheit das Gesicht hat starr werden lassen wie eine Maske, was tut Ali? Er steht vor dem Laden von Ermenegildo Zegna und zaubert. Zaubert! Er hält den Zeigefinger vor den Mund, und als es still ist, dreht er sich um und hebt ab. Schwebt etwa vier Zentimeter über dem Boden. "Oh", wispern die Leute, als wollten sie Ali endgültig zum Heiligen ausrufen. "I tricked you", flüstert Ali, er hat sie reingelegt. Dann erklärt er sein Kunststück.
"Man darf die Leute unterhalten", sagt Ali später im Hotel, "aber niemals täuschen."
Peter aus Detroit wirkt auch Minuten nach Alis Auftritt, als wäre er von einer guten Fee verzaubert. "Damals, in den Sechzigern, haben viele Menschen Ali einen Angeber geschimpft, aber das war damals falsch und ist es noch heute. Denn Ali hat nie etwas versprochen, was er nicht halten konnte."
Der berühmteste Boxer aller Zeiten ist mehr als nur der berühmteste Boxer aller Zeiten - er wurde zu einem der meistfotografierten Menschen, zu einem Idol wie John F. Kennedy, wie Elvis Presley, Marilyn Monroe oder Ché Guevara.
Wenn er den Ring betrat, ging es um mehr als um Schläge. Da verteidigte einer mit seinen Fäusten den Idealismus der sechziger Jahre, da kämpfte einer gegen den Rassismus, gegen einen erbarmungslosen Krieg in Vietnam. Wenn Ali die Boxhandschuhe anzog, dann kämpfte jemand gegen die alte Ordnung; es kämpfte Arm gegen Reich, die Dritte Welt gegen die Erste, Gut gegen Böse, David gegen Goliath.
Ein Staatsmann wie Nelson Mandela - auch einer aus dem Dutzend der großen Menschen, die von Menschen aller Kontinente und Kulturen verehrt werden - schaut bis heute zu ihm auf: "Ali ist mein Held", sagt Mandela. "Muhammad Ali hat viele junge schwarze Menschen auf der ganzen Welt dazu gebracht, Erfolg danach zu beurteilen, ob es einem gelingt, die Unfairness des Lebens herauszufordern. Ich danke Muhammad Ali für die Kraft seines Charakters und die Kraft seiner Taten. Ich danke ihm für den Mut, den er mir gegeben hat."
Alis Leben ist ein großes Drama, ein Schauspiel von Sieg und Niederlage, von Hoffnung und Demütigung, von Widerstand und Triumph, und Muhammad Ali ist an diesem September-Tag nach Los Angeles gekommen, um sich dieses Drama anzuschauen.
Die amerikanischen Büros des Taschen Verlags liegen am Sunset Boulevard im ersten Stock. Eine enge Treppe mit einem blaugrauen Teppich führt hinauf. Ali ist immer noch ein breiter Mann, er füllt das Treppenhaus, aber er klettert diese 20 Stufen hinauf, als bewegte er sich auf einer Meereshöhe von 8000 Metern, als ginge er auf den Gipfel des Mount Everest. Er steigt langsam, aber ohne Pausen.
Da oben liegen 830 Seiten, die ihn als den feiern, der er immer sein wollte. Es ist kein Buch, es ist ein Monument aus Papier: 50 Zentimeter breit, 50 Zentimeter hoch, 29 Kilogramm schwer. Das größenwahnsinnigste Buch der Kulturgeschichte, das größte, schwerste und schillerndste Ding, das je gedruckt wurde, Alis letzter Sieg.
In fünfjähriger Arbeit hat der Kölner Verleger Benedikt Taschen, ein Ali-Fan seit mehr als 30 Jahren, die besten Fotos, Texte und Dokumente über Ali zusammengetragen. Zehn Millionen Euro habe er in "Greatest of All Time", kurz "G.O.A.T.", investiert, sagt Taschen. Immer wieder hat er mit Ali zusammengesessen, um das Buch zu entwerfen, zu formen, zu vollenden. Nun liegt hier der erste Andruck in einer textilbezogenen Schmuckkassette. Ali stützt sich auf einen frisch polierten Glastisch, vor ihm ausgebreitet sein Leben. Ali tritt einen Schritt zurück, seine Schultern fallen nach vorn, die Hände baumeln herab. Der Mann, der von sich sagt, er sei der Größte aller Zeiten, scheint überwältigt. Unzählige Bücher, TV-Dokumentationen, drei Hollywood-Filme haben sein Leben beleuchtet. Ali atmet ein, atmet aus. Sein Gesicht ist starr wie ein Eiswürfel, aber seine Augen leuchten. "Ich wusste nicht", sagt Ali, "dass ich so groß war."
Ali ist 61 Jahre alt, und seinen letzten Fight führt er nun gegen eine Krankheit, die ihm das nimmt, was ihn groß gemacht hat: seine Sprache und seine Athletik.
Parkinson ist grausam, ein Knockout, der Jahrzehnte dauern kann. Eine Nervenkrankheit, die den Körper in eine lebende Mumie verwandelt. Die Muskeln werden steif, es bleibt nur ein Zittern, das immer stärker wird. Der Fluch Parkinson macht Menschen klein und lahm, treibt sie in die Depression. Nicht Ali. "Es fällt mir schwer zu sprechen", flüstert er verzerrt, entschuldigend und röchelnd. "Keine Schmerzen, nur Parkinson."
Keine Schmerzen, nur Parkinson. Er braucht für diese vier Wörter eine halbe Minute.
Wie viele Rebellen war Ali kein Heiliger. Er war früher nicht dieser sanftmütige Teddybär, der das olympische Feuer in Atlanta mit zitternden Händen anzündete und Millionen zu Tränen rührte.
Ali war nicht Gandhi, er war nicht Martin Luther King. Er glaubte nicht daran, dass die Dinge besser werden, wenn ein schwarzer Mann einem weißen Mann die andere Wange hinhält.
Ja, es stimmt, Ali gehörte zur Sekte der "Nation of Islam", die in den Sechzigern lehrte, dass alle weißen Menschen Teufel sind und dass irgendwann der Tag der Vergeltung kommen wird. Dann, wenn Allah mit 1500 Flugzeugen aus dem All, gesteuert von schwarzen Piloten, die Erde bombardieren lässt und alle verbrennen außer den Gerechten.
Ja, es stimmt, dass Ali in den Siebzigern Dinge sagte, die Osama Bin Laden heute für eine seiner Videoansprachen verwenden könnte. "Amerika hat keine Zukunft", schimpfte Ali, "Amerika wird zerstört werden! Allah wird auf göttliche Weise Amerika kaputtmachen. Wenn Amerika die Schwarzen nicht endlich gerecht behandelt, dann wird es brennen." Das hat Ali gesagt. Aber er sagte es nicht in einer Höhle im Hindukusch, er sagte es im "Playboy".
Und, ja, es stimmt, Ali war nur ein Boxer, aber er war schlau genug, über die Ringseile blicken zu können: "Wir sind nur zwei Sklaven im Ring. Die Bosse holen zwei von uns alten schwarzen Sklaven und lassen uns kämpfen, während sie wetten: ,Mein Sklave kann deinen Sklaven verprügeln.'"
So redete er, als er noch boxte. Dann kam Parkinson und machte ihn leiser.
Translation - Italian L’ULTIMA VITTORIA DI ALI’
Per assistere ai suoi incontri, gli uomini di ogni cultura si alzavano nel mezzo della notte e ancora oggi Mohammed Alì è un idolo dell’umanità. Faceva a pugni come nessun altro, parlava come Osama Bin Laden e ora, malato di Parkinson, combatte contro forze più grandi di lui.
Rodeo Drive, nel quartiere di Beverly Hills a Los Angeles, è la strada più costosa del mondo per fare spese, così costosa che persino i marciapiedi sono lastricati di marmo. Con una temperatura di ventotto gradi all’ombra, la gente cammina fiaccamente davanti alle vetrine di Tiffany e Bulgari, distinta, in base al colore delle proprie carte di credito, in due caste differenti: quella di coloro che possono permettersi il lusso dell’acquisto e quella di coloro a cui è lecito soltanto guardare.
Sono da poco passate le 16.30 di un giovedì pomeriggio quando questa Apartheid del turbocapitalismo crolla, a causa di un uomo che alloggia da due giorni al Beverly Wilshire Hotel e che si appresta a compiere una passeggiata. L’uomo si chiama Mohammed Alì, indossa dei pantaloni neri, una camicia dello stesso colore e dalla sua andatura si direbbe che qualcuno abbia intinto nella colla le suole di gomma delle sue scarpe. Bastano venti metri, è sufficiente che Mohammed Alì percorra venti metri per interrompere questa marmorea passerella dello sfarzo e far comparire un sorriso di umiltà sopra i volti delle persone, che si fermano, vogliono una fotografia, un autografo e abbracciarlo.
Un uomo di nome Takakasi, Sushi-Chef di Tokio, si stringe al petto di Alì proclamando: “Per me sei sempre tu il Campione.” Una ragazza con una borsa Chanel dà un bacio ad Alì e dice: “Alì, ti amo.” Un tizio di origine egiziana afferra la mano di Alì e mormora: “Allah sia con te!” E’ poi la volta di Peter da Detroit, dirigente di un gruppo di abbigliamento. Peter indossa dei sandali e dei calzoncini, entrambi di colore blu, e la sua taglia è quella di un Big Mac. Alì scherza con lui, fermandosi quando la moglie di Peter vuole immortalare con uno scatto il pugno bianco del marito sul suo naso nero. “No”, esclama Peter “no, campione, non farlo. Non voglio nessuna fotografia in cui ti prendo a pugni, nemmeno per scherzo. Voglio soltanto abbracciarti.”
La folla si fa più numerosa, le prime auto si fermano e Alì, l’uomo a cui il morbo di Parkinson ha reso il volto rigido come una maschera, cosa fa Alì? In piedi davanti a un negozio di Ermenegildo Zegna esegue un numero di magia. Incanta! Con l’indice davanti alla bocca e calato il silenzio, si volta e si libra a circa 4 cm d’altezza. “Oh!” sussurra la gente, quasi volesse in ultimo proclamarlo santo. “Vi ho imbrogliato”, mormora Alì. Li ha abbindolati, ma non tarda a rivelare il trucco del suo gioco d’illusionismo.
“Si può intrattenere la gente”, affermerà Alì più tardi in hotel, “ma mai ingannarla.”
Diversi minuti dopo aver visto Alì, Peter da Detroit appare ancora ammaliato: “Negli anni ’60, molti uomini hanno dato dello spaccone ad Alì, ma questo era falso allora e lo è tutt’oggi perché Alì non ha mai promesso niente che non potesse mantenere.”
Alì non è soltanto il pugile più famoso di tutti i tempi, ma anche uno degli uomini più fotografati, un idolo come John F. Kennedy, Elvis Presley, Marilyn Monroe o Ché Guevara.
Quando metteva piede sul ring, era più che pugilato: era il singolo che difendeva con i propri pugni l’idealismo degli anni ’60, era il singolo che combatteva contro il razzismo e contro una spietata guerra in Vietnam. Quando Alì s’infilava i guantoni, allora ciascuno combatteva contro il vecchio sistema: il Povero combatteva contro il Ricco, il Terzo Mondo contro il Primo, il Bene contro il Male, Davide contro Golia.
Un uomo di stato del calibro di Nelson Mandela, nonché uno dei dodici grandi uomini ammirati dall’umanità intera, a tutt’oggi leva a lui lo sguardo: “Alì è il mio eroe”, dice Mandela. “Mohammed Alì ha spronato molti giovani uomini di colore in tutto il mondo a sfidare l’ingiustizia della vita, con quale risultato resta da giudicare, se qualcuno ne è in grado. Ringrazio Mohammed Alì per la forza del suo carattere e la forza delle sue azioni. Lo ringrazio per il coraggio che mi ha dato.”
La vita di Alì è un grande dramma, uno spettacolo di vittoria e di disfatta, di speranza e di umiliazione, di resistenza e di trionfo e Mohammed Alì, in questo giorno di settembre, è venuto a Los Angeles per ammirare questo dramma.
Gli uffici americani della casa editrice Taschen si trovano sul Sunset Boulevard, al primo piano. Un’angusta scala ricoperta da un tappeto grigio-azzurro conduce ai piani superiori. Alì è ancora un uomo prestante, tanto prestante da occupare con il suo fisico l’ampiezza del vano scala, ma sale quei venti gradini come se camminasse a 8000 m. sopra il livello del mare, come se scalasse la cima del monte Everest. Sale lentamente, ma senza fermarsi.
Ad attenderlo al piano di sopra ci sono 830 pagine che celebrano l’uomo che lui avrebbe voluto restare per sempre. Non è un libro, è un monumento di carta di 50X50 cm. e del peso di 29 Kg. Il libro più megalomane della storia della cultura, l’oggetto più pesante e più variegato che sia mai stato stampato: l’ultima vittoria di Alì.
In cinque anni di lavoro l’editore Benedikt Taschen, originario di Colonia e ammiratore di Alì da più di trent’anni, ha raccolto le foto, i testi e i documenti migliori su Alì. Taschen afferma di aver investito dieci milioni di euro in “Greatest of All Time”, abbreviato a “G.O.A.T”. L’editore ha più volte consumato i pasti in compagnia di Alì per abbozzare, formare e concludere il libro. La prima copia giace in una teca foderata di tessuto.
Alì si appoggia a un tavolo di vetro appena lustrato, davanti a lui è dispiegata la sua vita. Alì fa un passo indietro, le spalle gli ricadono in avanti, le mani penzoloni. L’uomo che afferma di essere il più grande di tutti i tempi appare sbalordito. Innumerevoli libri, documentazioni televisive e tre film hollywoodiani hanno illuminato la sua vita. Alì inspira ed espira. Il suo viso è rigido come un cubetto di ghiaccio, ma i suoi occhi brillano. “Non sapevo di essere così grande”, commenta.
All’età di 61 anni, Alì conduce la sua ultima battaglia contro un male che gli sta portando via ciò che lo ha reso grande: l’uso della parola e il suo essere atletico.
Il morbo di Parkinson è spietato, un K.O. che può durare decenni. Una malattia del sistema nervoso che trasforma il corpo in una mummia vivente. I muscoli diventano rigidi, resta soltanto un tremore che si fa sempre più intenso. La maledizione del Parkinson rende gli uomini minuti e paralitici, li induce in depressione. Tutto questo non è successo ad Alì. “Mi riesce difficile parlare”, sussurra stravolto, porgendo ansimante le proprie scuse. “Nessun dolore, soltanto il Parkinson.”
Nessun dolore, soltanto il Parkinson. Per pronunciare queste cinque parole gli è occorso mezzo minuto.
Come molti ribelli, Alì non era un santo. In passato non è stato quel mansueto orsacchiotto che ad Atlanta ha acceso il fuoco olimpico con mani tremanti, commuovendo fino alle lacrime milioni di persone.
Alì non era Gandhi, non era Martin Luther King. Lui non credeva che le cose sarebbero migliorate se un uomo di colore avesse porto a un uomo bianco l’altra guancia.
Vero è che Alì apparteneva alla setta della “Nazione dell’Islam”, che negli anni ’60 riteneva tutti gli uomini bianchi dei demoni e che prima o poi il giorno della vendetta sarebbe arrivato; il giorno in cui Allah con 1500 aerei provenienti dall’universo e guidati da piloti di colore, avrebbe fatto bombardare la terra e tutti, ad eccezione dei giusti, sarebbero stati bruciati.
Altrettanto vero è che negli anni ’70 Alì diceva cose che oggi Osama Bin Laden potrebbe utilizzare per una delle sue allocuzioni televisive. “L’America non ha futuro”, inveiva Alì “l’America verrà distrutta! Allah annienterà l’America in modo divino. Se l’America non si deciderà a trattare giustamente i neri, allora brucerà.” Questo è quello che ha detto Alì, non però seduto a gambe incrociate in un caverna, ma sulla rivista “Playboy”.
Certo, Alì era soltanto un pugile, ma era abbastanza accorto da riuscire a vedere la furia del quadrato: “Siamo soltanto due schiavi sopra un ring. Gli organizzatori assoldano due di noi vecchi schiavi neri e ci fanno combattere mentre loro scommettono: ‘Il mio schiavo può pestare il tuo’.”
Così parlava Alì quando ancora boxava. Poi arrivò il Parkinson e lo rese più docile.
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Other - Laurea in Lingue e Letterature Straniere (Università degli Studi di Torino) / Degree in Foreign Languages and Literatures